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Come samurai devoti ai loro daimyō

Il coraggio, l’onestà e la lealtà sono qualità essenziali che il popolo italiano desidera trovare nel proprio leader. In Giappone, tali virtù sono state incarnate per secoli da una delle figure più affascinanti e iconiche della storia: i Samurai. Il termine “samurai”, con il significato letterale di "dipendente", assume un senso di nobiltà e disciplina nel contesto del Giappone feudale. Questo guerriero, noto anche come bushi o membro della "famiglia militare", era il rappresentante di un'élite addestrata nell'arte marziale, con la capacità di padroneggiare con maestria spada, arco, lancia e altre armi. La sua fedeltà era riservata al daimyō, un potente signore feudale. Il Giappone, grazie alla sua insularità, ha mantenuto una cultura distintiva e unica nel corso della storia, influenzando lo sviluppo storico del Paese. Contrariamente all'Europa, dove l'età del feudalesimo ebbe termine più o meno con la fine del Medioevo, in Giappone persistette fino al XIX secolo. In questo contesto, i samurai emersero come una delle classi aristocratiche di spicco, con la guerra e l'onore come pilastri fondamentali della loro esistenza. 



L'addestramento dei giovani eredi delle famiglie guerriere iniziava sin dalla tenera età, a soli 3 anni. Fin dall'infanzia, oltre a ricevere un’adeguata istruzione di base, essi, venivano istruiti nell'arte di dominare la paura della morte e nell'importanza di obbedire al proprio signore. Attraverso una disciplina chiamati kata. Già a partire dai 7 anni, venivano avviati all'uso dell'arco e delle frecce, nonché all’esercizio con la spada di legno o e in metallo. Venivano istruiti nel combattimento a cavallo attraverso addestramenti intensi e tempravano il corpo e la mente con dure prove di resistenza, consistenti in docce gelide sotto cascate impetuose o nell'abbraccio della neve. Dall'età di dodici anni, venivano progressivamente introdotti sul campo di battaglia, dove non solo apprendevano l'arte del combattimento, ma si confrontavano anche con la dura realtà di dover porre fine alle vite nemiche.

 




Ciò che distinse i samurai dagli altri guerrieri o cavalieri europei, oltre alla maestria nell'uso di armi come la katana, fu l'assoluta aderenza al Codice Etico noto come bushidō, ossia "la via del guerriero". Questo codice stabiliva un rapporto indissolubile tra il samurai e il suo daimyō, il signore feudale a cui prestava fedeltà. Al centro del bushidō vi erano la lealtà incondizionata, un rigido concetto di onore e il sacrificio personale a vantaggio del bene comune. La fedeltà dei samurai si manifestava attraverso il concetto di 'giri', un principio morale che implicava il dovere di ricambiare un favore o un atto di gentilezza. Questo concetto rifletteva l'obbligo sociale dei samurai di essere estremamente leali verso i loro superiori. Anche in situazioni estreme o di pericolo, i samurai erano pronti a sacrificare tutto per seguire il loro signore fino alla morte, dimostrando così la loro devozione e fedeltà assolute. Qualora un'offesa o una grave colpa avesse compromesso questo rapporto, c'era sempre una via per salvare l'onore: il seppuku, ovvero” il suicidio rituale”. In questo cerimoniale antico, il samurai si inginocchiava e con un colpo deciso, squarciava il proprio ventre, poiché esso era considerato il custode dell'anima. Questo gesto, eseguito di fronte a testimoni fidati, rappresentava una dimostrazione di purezza d'animo. Armato del suo tantō (“pugnale”) o della wakizashi (“spada corta”), il samurai praticava un taglio a forma di "L", partendo dall'ombelico e dirigendosi da sinistra a destra e verso l'alto. La presenza di testimoni e del kaishakunin, incaricato di porre fine alla sofferenza con un colpo deciso alla nuca, garantiva che il samurai non avesse ripensamenti e potesse affrontare il suo destino con fermezza. 



Questa etica profonda ha lasciato un'impronta indelebile, riflessa nelle azioni coraggiose dei kamikaze durante la Seconda Guerra Mondiale. Clamoroso esempio è sicuramente quello di Yukio Seki, un giovane pilota giapponese della Marina Imperiale e uno dei membri fondatori dell'unità kamikaze. Nell’ottobre del 1944, durante la Battaglia del Golfo di Leyte, Seki guidò il suo aereo in un attacco suicida contro una nave statunitense, l'USS St. Lo. Il suo sacrificio contribuì a danneggiare gravemente la nave e a causare perdite significative tra l'equipaggio americano. Yukio Seki è considerato uno dei primi kamikaze ad aver condotto un attacco suicida durante la guerra, attuando, nella storia moderna, quegli ideali di sacrificio e di servizio che i samurai svolgevano nei confronti del loro daimyō. Pertanto, è auspicabile che, come samurai devoti ai loro daimyō, i leader italiani dovrebbero incarnare i valori di onore e lealtà nel servire e proteggere la popolazione.

E ciò solleva importanti interrogativi sul ruolo dei nostri leader e sulla natura del rapporto che desideriamo avere con loro.  


Elisa Mazzella


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